Sparpagliati al Nord ma riuniti per Taranto
Sette amici di liceo e di Università formano l'Accademia degli Epeidi
Correva l’anno… No, questa frase è troppo importante per iniziare a raccontare la nostra storia: una storia semplice, simile a tante altre ma che col tempo è cresciuta fino a diventare, almeno per noi, molto importante e piena di significati, perché sono le piccole differenze che a volte possono mutare semplici avvenimenti in storie importanti.
La nostra storia è la storia di sette ragazzi e prende avvio tra la fine degli anni ‘50 e gli inizi degli anni ‘60 del secolo scorso… fa quasi paura adoperare queste parole perché vuol dire che da allora è trascorso più di mezzo secolo e tuttavia abbiamo ancora la fortuna di poterla raccontare. I sette ragazzi si conoscevano già, anche se solo di vista, perché allora i posti più frequentati di Taranto erano via D’Aquino, La Sem, Praia a Mare, Lido Bruno… zì Luiggi… e tutti provenivano dai licei e dagli istituti della città: l’”Archita”, il “Battaglini”, il “Pitagora”, il “Tito Livio”… Verso la fine degli anni ’50 questi ragazzi, un po’ alla volta, conquistano “la maturità”: parola magica che allora sembrava una méta ma che altro non era che una tappa, la prima veramente difficile verso il mondo dei grandi, il mondo delle decisioni e degli impegni per il futuro, per il proprio lavoro. Non hanno tutti la stessa età, per cui per ciascuno di loro la scelta della sede universitaria avviene in tempi differenti. Quali sono i motivi che portano alla scelta di una sede universitaria? Credo che siano al massimo tre o quattro: l’importanza della sede o di una particolare facoltà; la tradizione di famiglia (lì hanno studiato il papà, il fratello maggiore o qualche parente); un congiunto già residente nella zona; infine seguire la scelta di un amico con cui si è particolarmente legati. La sede? Pisa, la città della torre pendente che accomuna chissà quanti giovani tarantini, giovani non solo di età ma di spirito soprattutto. Durante il periodo universitario nascono e si rinforzano delle amicizie che senza dubbio lasciano un segno indelebile per tutta la vita: interessi comuni su particolari argomenti, stesso modo di scherzare ma soprattutto un filo invisibile e difficilmente spiegabile che collega due o più persone in una comunione di intenti.
Questa è l’Amicizia, quella con la “A” maiuscola… quella che lega gli amici senza alcun interesse se non il puro piacere di condividere momenti ed emozioni, quella che difficilmente può nascere fra persone ormai adulte. Anche se sembrano interminabili, gli anni universitari volano in un soffio fra ore trascorse sui libri, patemi per gli esami, discussioni e progetti per il futuro ma anche scherzi goliardici, passeggiate sotto i portici di Borgo Largo e Borgo Stretto, in Corso Italia, sui romantici Lungarni, a sorseggiare un caffè al Bar Cipriani e ad ascoltare nel jukebox le canzoni in voga; e, in primavera, sdraiati sull’incantevole prato di Piazza dei Miracoli, a guardare i turisti (ma soprattutto le turiste…) che col naso all’insù ammirano la Torre o si fanno ritrarre nell’atto di mantenerla per non farla cadere. Un particolare passatempo che ci divertiva era la sfida nel ricordare o proporre arcaiche parole in dialetto tarantino di cui il gruppo doveva interpretare il significato, oppure frasi idiomatiche in vernacolo di particolare colore, quelle frasi che quasi come un canto alcuni ambulanti modulavano per reclamizzare i loro prodotti o pubblicizzare il loro lavoro: il venditore di “carvùn” o di “ciòse” (gelsi), il pescivendolo di “naccaridde”, o anche l’ombrellaro, il mulaforbici, il raccoglitore di “squerc” (baccelli vuoti di piselli da utilizzare come mangime per gli animali). Uno in particolare fin da piccolo aveva colpito la mia fantasia per la stranezza dei suoi “versi” che sono riuscito ad interpretare solo da grande. Cantava “we wagné ci è ci vo acì”. Sono certo che nessun giovane tarantino oggi riuscirebbe ad indovinare cosa vendeva quel buonuomo. Se fosse stato in Toscana avrebbe detto: «Oh bimbe, chi desidera acquistare dell’aceto?». Immaginate che il raccoglitore di stracci (ne esistono ancora?) che a Taranto declamava «Robbe vecchie, pezze vecchie da vennere», a Pisa si limitava a gridare «Cenciaiooooo!!!».
La mitologia
Epeo è il nome di due eroi. Il primo è uno dei figli di Endimione, re di Elide, perciò fratello di Peone e di Etolo. Succedette al padre e, per un certo tempo, una parte del popolo degli elei prese da lui il nome di epei. Il secondo, il più celebre, è figlio di Panopeo. Prese parte alla spedizione contro Troia alla testa di un contingente di 30 navi e si distinse soprattutto nel pugilato durante i giochi funebri in onore di Patroclo. Suo principale titolo di gloria è l’aver costruito il cavallo di legno che servì a prendere Troia. Durante il suo ritorno, Epeo approdò in Italia meridionale, dove fondò la città di Metaponto o quella, vicinissima, di Lagaria. Qui consacrò alla dea Atena gli attrezzi con i quali aveva fabbricato il cavallo di Troia. Un’altra tradizione fa di lui il fondatore di Pisa, nell’Italia centrale, così chiamata dall’omonima città dell’Elide. Si attribuisce a Epeo una statua miracolosa di Ermes, adorata a Eno in Tracia. Il simulacro di legno, scolpito a Troia e portato via dalla piena dello Scamandro, giunse fino a Eno, dove i pescatori lo presero nelle reti. Poiché non riuscirono né a farlo a pezzi né a bruciarlo, lo gettarono in mare, ma questo si impigliò nuovamente nelle reti. Capirono che era un’immagine divina e le dedicarono un santuario (questa leggenda è stata raccontata da Callimaco, in un poema di cui ci sono rimasti solo frammenti).
Arrivano gli anni Sessanta e le prime agognate lauree; feste, brindisi, saluti… un po’ di commozione e la promessa di ritrovarci ancora. Il mondo fuori dall’università, però, non è affatto semplice e fra impegni di lavoro, nuove famiglie che si formano e problemi vari, i nostri amici si perdono di vista. Alcuni rientrano a Taranto dove preferiscono “chiantà ‘u zìppere” mentre altri si spargono lungo tutto il territorio nazionale. Qualcuno forse anche all’estero. Ma il “Club dei sette” allora?…. facciamo un salto in avanti di circa quarant’anni ed arriviamo verso la fine del 1999 a Livorno. Durante un incontro casuale fra due amici di quel gruppo di tarantini di Pisa viene l’idea di riunire altri ex che vivono nelle vicinanze (si fa per dire), cioè in città del centro-nord facilmente raggiungibili. Fra telefonate, richieste di informazioni e passaparola si riescono a rintracciare sette “ragazzi” i cui nomi, ne sono sicuro, rinverdiranno tanti ricordi dimenticati fra molti di coloro che stanno leggendo queste note. Il primo incontro si svolge a Livorno, insieme alle consorti: una cena a base di pesce, naturalmente, e fra reminiscenze dei tempi passati, di amici comuni (alcuni purtroppo che non ci sono più), racconti sulle proprie famiglie e aggiornamenti sul proprio lavoro, la cena trascorre piacevolissima tanto che, alla fine, uno dei “ragazzi” propone di ripetere il meeting nella città in cui ora vive. Anche il secondo e il terzo incontro sono altrettanto piacevoli. Proprio in tale occasione (questa volta eravamo, manco a dirlo, a Pisa) nasce l’idea di costituire un Club: il “Club dei Sette”, dal numero dei partecipanti agli incontri. Gli scopi di questo Club sono quelli di mantenere vivi le amicizie, le tradizioni, i ricordi, il dialetto della città che ci ha dato i natali e chiacchierare e discutere su argomenti di cultura, umanità, personali esperienze di vita e di lavoro. Il logo: un cerchio che su fondo azzurro racchiude la figura stilizzata di un Taras armato di tridente mentre cavalca un delfino, affiancato alla torre di Pisa.
Gli incontri vengono tenuti nella città del Presidente di turno: questi si autonomina nel momento in cui si candida per organizzare la prossima riunione e resta in carica fino alla fine del meeting per passare l’incarico al nuovo ospitante. Ora permettetemi di presentarvi i primi soci del Club in rigoroso ordine alfabetico: dott. Franco Acquaviva, titolare dell’omonima famosa farmacia al centro di Livorno; dott. Paolo Bellando Randone, ortopedico a Ferrara e già medico della Nazionale di hokey su ghiaccio a Cortina d’Ampezzo; avv. Roberto Greco del Foro di Bologna; prof. Gigi Piccirilli, titolare di Scienze delle Antichità e del Medioevo all’Università di Genova ed ex allievo della Normale di Pisa; dott. Nicola Pilone, urologo a Pisa; dott. Franco Stola, biologo alimentarista a Parma; prof. Arturo Viglione, primario di Ostetricia e Ginecologia presso gli ospedali di Barga – Lucca. Purtroppo uno dei nostri, Gigi Piccirilli, ben presto ci lascia, stroncato da una malattia incurabile, e per ricomporre il numero viene invitato l’avvocato Angelo Acquaviva, del Foro di Bologna. Fra i sette ce n’è uno, Arturo Viglione, che oltre a dedicarsi alla sua professione è un appassionato studioso e ricercatore di arte e di storia antica e… in una delle tante riunioni ci parla di Epeo… Epeo… chi era costui? Per chi non lo sapesse fu il costruttore del Cavallo di Troia e alla fine del conflitto narrato da Omero si recò in Puglia, nel Tarantino, dove fondò una città: Metaponto. Da lì poi si recò sulle rive dell’Arno dove fondò la città di Pisa. Dopo aver ascoltato questa storia, i sette, guardandosi in viso, capiscono al volo ciò che era nelle intenzioni di Arturo e fu così che il Club dei sette si tramutò nell’Accademia degli Epeidi. Il logo fu studiato da Franco Stola che fece realizzare un “crest” che riporta, circondato da una corona d’alloro, la riproduzione di un cavallo in balsa, opera dello scultore Mario Ceroli, che fa bella mostra nella segreteria particolare dell’Assessorato Formazione Professionale della Regione Puglia in piazza Aldo Moro a Bari. Il tempo passa e ormai tutti gli “accademici” sono in pensione ma lo spirito di amicizia e i ricordi della mai dimenticata Taranto sono sempre gli stessi. Da non molto ai sette se n’è aggiunto un ottavo, anche lui tarantino doc: è l’Ammiraglio Antonio Lalli, direttore emerito dell’Istituto di Farmacologia delle Forze Armate di Firenze e che attualmente risiede a Prato. La speranza è quella di poterci incontrare ancora e ancora per ricordare l’attaccamento immutato che tutti abbiamo per la mai dimenticata “Tàrde nuèstre”. Ulteriori notizie con foto si possono consultare su Facebook alla pagina “Accademia degli Epeidi”.