TRUFFA DEGLI IDROCARBURI FRA TARANTO E ALTRE CITTA’: 45 ARRESTI

Maxi-operazione della Finanza e dei carabinieri. Le infiltrazioni della Mafia

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Nelle prime ore di questa mattina, nelle province di Salerno, Napoli, Avellino, Caserta, Cosenza e Taranto, i Comandi Provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza di Salerno e del Nucleo di Polizia Economico – Finanziaria di Taranto – su delega delle DDA di Potenza e Lecce impegnate in una indagine congiunta e coordinata a carico di oltre 100 indagati – hanno complessivamente impiegato oltre 410 uomini per dare esecuzione a due Ordinanze applicative, complessivamente, di 45 misure cautelari personali (26 in carcere, 11 agli arresti domiciliari, 6 destinatari di divieto di dimora e due misure interdittive della sospensione dall’esercizio delle rispettive funzioni di due appartenenti al Corpo per la durata di sei mesi) – con sequestri di immobili, aziende, depositi, flotte di auto-articolati, emesse dai GIP dei Tribunali di Potenza e Lecce, nei confronti di 45 indagati, indiziati di associazione mafiosa, associazione a delinquere finalizzata alla commissione di frodi in materia di accise ed IVA sugli olii minerali, intestazione fittizia di beni e società, riciclaggio, autoriciclaggio e impiego di denaro di provenienza illecita.

Le indagini, coordinate dalle menzionate DDA e svolte dalle sopra indicate forze di Polizia Giudiziaria, hanno fatto emergere distinte ma collegate organizzazioni criminali – variamente qualificate ai sensi degli artt 416 bis e 416 aggravato ex art 416 bis 1 cp – operanti nei Distretti di Lecce e Potenza – e segnatamente nel Vallo di Diano, quindi nel basso salernitano, nonché nella Provincia di Taranto, ruotanti, tutte – talora in modo collegato ed in alleanza, talora in modo conflittuale – intorno ad importanti famiglie mafiose, riconducibili al clan dei casalesi ed ai clan mafiosi tarantini, il cui core business era rappresentato da un contrabbando di idrocarburi che ha cagionato allo Stato danni economici per decine di milioni di euro, a cui ha corrisposto un eguale guadagno per tali sodalizi.

L’indagine, svolta con grande spirito collaborativo e di coordinamento fra i diversi Uffici Giudiziari e di PG, ha confermato come la grande criminalità organizzata e le mafie nazionali, oramai, si finanzino se non in via esclusiva, in via assolutamente prevalente, in uno con il traffico di stupefacenti, attraverso queste attività illecite di contrabbando che, nell’attualità, hanno raggiunto proporzioni gigantesche, cui mai si era arrivati nel passato.

Il meccanismo illecito disvelato, meglio in seguito descritto, sfruttando le maglie di una normativa che si è stratificata nel tempo e che, in un lodevole sforzo di liberalizzare il mercato ed incentivare la concorrenza e le attività agricole, ha paradossalmente incentivato un giro di frodi all’IVA e di evasione delle accise, che, con poco rischio, ha consentito ad una imprenditoria criminale e mafiosa di frodare lo Stato e mettere in un angolo la concorrenza onesta, accumulando in poco tempo centinaia di milioni di euro.

Il filone investigativo che ha riguardato la Provincia di Taranto, ha, in particolare, fatto emergere l’esistenza di una associazione di stampo mafioso – risorta dalle ceneri di altri sodalizi neutralizzati da precedenti attività investigative – che si è ricompattata attorno alla figura tarantina di Michele Cicala, già condannato con sentenze definitive anche per estorsione aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso ed associazione per delinquere, con legami con componenti del clan tarantino Catapano – Leone. Il sodalizio, si caratterizzava per la capacità di controllo del territorio, con conseguente controllo dei traffici illeciti sviluppati nel contesto ambientale di riferimento, con conseguente reimpiego delle risorse economiche in numerose attività economico-commerciali, alcune delle quali direttamente riconducibili all’organizzazione anche attraverso una fitta rete di prestanome, che, si è caratterizzata per un uso della violenza e delle armi che venivano messe al servizio della strategia criminale volta ad acquisire il controllo di attività economiche e, in particolare, quella della distribuzione degli idrocarburi rivelatasi, come detto, estremamente lucrosa.

E così nel corso delle indagini è emerso come, in tale contesto, l’associazione in esame utilizzando un innovativo know-how “fraudolento” nel settore del contrabbando di idrocarburi saldava la propria attività con quella gruppi criminali operanti da tempo nei medesimi settori con imprese che già avevano un loro mercato. Si accertava, così come i tarantini si alleassero con l’altro gruppo criminale, operante nel Vallo di Diano, a cavallo tra Basilicata e Campania, proprio nel settore nel contrabbando di carburanti sviluppando in modo coordinato attività contrabbandiere e, con i guadagni di tale attività, rilevantissimi investimenti e attività di riciclaggio.

In sostanza, venivano vendute ingentissime quantità di carburante per uso agricolo, che come noto beneficia di particolari agevolazioni fiscali, a soggetti che poi lo immettevano nel normale mercato per autotrazione, assai spesso utilizzando le cd “pompe bianche”.

In concreto, i tarantini, oltre che per il raggiungimento delle proprie finalità, fornivano ai lucani periodicamente, un elenco di nominativi le cui identità fiscali e i libretti UMA venivano clonate in modo che le imprese del sodalizio campano/lucano (come vedremo di derivazione casalese) potesse fatturare fittiziamente la vendita del carburante per uso agricolo a tali, ignari, imprenditori agricoli, mentre i realtà il prodotto veniva venduto in nero a operatori economici che lo immettevano fraudolentemente nel mercato per autotrazione con guadagni di circa il 50% sul costo effettivo di ogni litro di benzina e nafta venduti. Una vera e propria miniera di oro nero .

Inoltre, i due sodalizi, attraverso meccanismi informatici, ingannavano il sistema telematico dell’Agenzia delle Entrate, che non era in grado di consegnare la fattura elettronica al fittizio cliente/agricoltore apparente destinatario del carburante che, quindi, rimaneva inconsapevole della finta operazione di vendita effettuata utilizzando il suo nominativo.

Per quanto attiene, invece, il trasporto del prodotto, questo usciva dai depositi fiscali scortato da documenti falsamente attestanti il trasporto di gasolio agricolo. In caso di controllo da parte delle Forze di Polizia, l’autista azionava un apposito congegno elettromagnetico che azionava una pompa che iniettava il colorante (il carburante agricolo ha una colorazione diversa da quella del carburante normalmente usato per autotrazione) allineando il prodotto ai documenti esibiti.

In assenza di controllo, il camion giungeva ai depositi commerciali riconducibili agli indagati, simulava lo scarico del prodotto (sostando a favore delle telecamere di sorveglianza per un tempo compatibile a quello realmente necessario per le operazioni) simulava il carico di gasolio per uso autotrazione (con gli stessi accorgimenti) e ripartiva scortato da documenti fiscali di accompagnamento clonati rispetto alla numerazione del registro di carico e scarico attestanti il trasporto di gasolio per uso autotrazione che sarebbero stati registrati in caso di controllo.

Una volta giunto al destinatario finale senza controlli, il DAS clonato veniva strappato e l’operazione non registrata. Dunque si completava così la vendita in nero del carburante agricolo utilizzato invece e venduto (ad un prezzo quasi doppio) per normali fini di autotrazione.

L’illecita attivitàha fruttato rilevantissimi profitti, quantificati in circa € 30.000.000 ogni anno.

Sul versante lucano l’indagine – avviata su iniziativa di questa Direzione Distrettuale Antimafia alla fine del 2018 – partiva da una delega alla polizia giudiziaria ( in una fase iniziale i Carabinieri della Compagnia di Sala Consilina e del Nucleo Investigativo di Salerno, poi anche la GdF di Salerno) di procedere ad un’analisi ad ampio spettro sul territorio del basso salernitano (che solo negli ultimi anni è passato alla competenza della DDA di Potenza) allo scopo di individuare operatori commerciali prestatisi come terminale occulto per il reinvestimento di capitali illeciti da parte di sodalizi criminali esogeni.

L’attenzione veniva subito concentrata sulla posizione della società Carburanti Petrullo s.r.l. di San Rufo (SA) e più in generale sulle società di carburanti del Gruppo Petrullo, la quali – per la dinamica delle loro dimensioni, struttura, relazioni e comportamenti “spia” – palesava una serie di profili di incongruità, quali l’inspiegabile aumento esponenziale dei fatturati e degli investimenti nel giro di pochi anni .

Emergeva così dalle indagini che il rilevantissimo boom economico della ditta Petrullo coincideva con l’ingresso nelle compagini societarie del Petrullo, quali soci e gestori di fatto, dei componenti della nota famiglia casertana (di San Cipriano d’Aversa) dei Diana, i cui componenti avevano investito nell’impresa, in forma occulta, capitali provenienti – con ragionevole certezza e comunque a livello di gravità indiziaria – da pregresse attività illecite, specie nel settore del traffico di rifiuti, attività di rilevantissime dimensioni (cd “Operazione Re Mida”) in relazione alle quali era stata contestata, a suo tempo, dalla Procura di Napoli, a Diana Raffaele, l’aggravante della finalità agevolatrice del clan dei Casalesi.

Dall’inizio del 2019, sono state quindi eseguite – sia dalla DDA di Potenza che da quella di Taranto e dalle rispettive polizia giudiziarie – mirate attività tecniche (oltre alle classiche intercettazioni telefoniche, è stato anche fatto ricorso a captatori informatici, dispositivi gps e microfoni ambientali) che, nel corso dei complessivi 14 mesi dell’inchiesta – supportata dalle attività svolte Nucleo di Polizia Economica Finanziaria della Guardia di Finanza di Salerno che, sulla base di autonomi input info-investigativi, aveva avviato (alla fine del 2017) una verifica fiscale ai fini delle accise e dell’IVA nei confronti delle società del Petrullo – al fine di appurare potenziali condotte evasive poste in essere nella compravendita di prodotti petroliferi – che ha portato la DDA di Potenza a contestare ai componenti del gruppo economico criminale facente capo a Petrullo ed ai Diana oltre che i numerosissimi reati di contrabbando, frodi all’IVA, estorsioni e truffe, anche il delitto di associazione a delinquere aggravata dalla finalità di agevolare il clan dei casalesi, attraverso la penetrazione in un nuovo territorio ancora immune da tale fenomeno (quello del Vallo di Diano) di una imprenditoria criminale apripista del sodalizio mafioso.

Fin dai primissimi riscontri, è stato accertato che la società, attiva nel mercato del commercio di prodotti energetici, era in concreto divenuta il canale privilegiato attraverso il quale la famiglia Diana (si ripete, inquisita per aver “avvelenato”, nel tempo, la propria terra di origine con il traffico di rifiuti) si era infiltrata nel tessuto economico-sociale del Vallo di Diano, stringendo a questo scopo un pactum sceleris con Massimo Petrullo, titolare dell’omonima società di carburanti ed avamposto dei Casalesi in quel territorio e con altri esponenti dell’imprenditoria locale.

In ragione della complessità della materia sotto il profilo fiscale, è stato affidato al Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Salerno e Taranto il primario compito di quantificare e certificare l’illecito profitto ottenuto dal sodalizio attraverso la sistematica evasione di accise ed IVA, affiancando gli investigatori dell’Arma nella ricostruzione delle diverse fasi dell’articolata frode.

Alla luce degli elementi indiziari raccolti durante le indagini tecniche e l’analisi delle segnalazioni per operazioni sospette, nonché delle risultanze delle attività amministrative svolte dai Finanzieri salernitani, il contesto investigativo è stato esteso a partire almeno dal 2015, anno in cui sono stati rilevati i primi contatti tra il Diana Raffaele e Petrullo Massimo ed i rapporti commerciali tra questi ed aziende del casertano (area, peraltro, sotto l’influenza anche della stessa famiglia Diana) e poi quelli stabili con le aziende riferibili al clan mafioso tarantino di cui sopra si è detto.

I capitali così illecitamente acquisiti venivano successivamente reimpiegati, tra l’altro, nell’acquisizione di beni immobili e quote societarie, realizzando un’economia illecita “circolare”, che ha permesso alla famiglia Diana di affermarsi gradualmente quale player commerciale di riferimento nella compravendita illegale di idrocarburi nel Vallo di Diano, alterando pertanto le dinamiche del libero mercato e della concorrenza.

Tra i due gruppi, quello campano/lucano e quello tarantino, nondimeno, dopo una stretta e proficua collaborazione, sono via via sorte forti fibrillazioni, soprattutto legate al fatto che il Petrullo, resosi conto di aver quasi completamente perso la concreta gestione della propria società (ormai di fatto in mano ai Diana), aveva tentato di accordarsi in segreto con i tarantini.

Tali attriti (era stato perfino assoldato un killer per uccidere Raffaele Diana, tentativo poi abbandonato) non sfociati in una vera e propria “guerra” solo in ragione del mutuo interesse a non sollevare eccessivi allarmi sulle attività illecite perpetrate, estremamente lucrose per entrambe le parti.

Varie, del resto, le ulteriori condotte illecite accertate al termine delle investigazioni (estorsione, illecita detenzione di armi, turbata libertà degli incanti, dichiarazione fraudolenta, falsità ideologica e nella tenuta dei registri, favoreggiamento personale, rivelazione di segreto e corruzione per atti contrari ai propri doveri, etc.), tra cui anche la partecipazione ad una gara per la fornitura di carburanti a favore del Consorzio di Bonifica dei Bacini del Tirreno Cosentino, aggiudicata attraverso un accordo irregolare, garantito dalla vicinanza con un esponente della criminalità locale, in grado di imporsi anche in un territorio differente da quello di elezione. E’ stato acclarato il pieno coinvolgimento in questo episodio di un dipendente del Consorzio, oggi sottoposto agli arresti domiciliari.

È stato altresì ricostruito il ruolo di informatore tenuto da un carabiniere “infedele” che, in cambio di svariate taniche di gasolio poi vendute a terzi, ha fornito al sodalizio informazioni inerenti alle attività d’indagine a carico dei consociati. Nei confronti del militare – condotto in carcere – l’Arma, d’intesa con l’Autorità giudiziaria, ha immediatamente assunto provvedimenti di rigore al manifestarsi del suo coinvolgimento, trasferendolo, già nel novembre 2019, fuori dalla provincia salernitana in incarico non operativo.

Particolarmente notevole l’entità delle misure reali, accolte dai GIP di Potenza e Lecce, i quali hanno disposto il sequestro preventivo delle società Carburanti Petroli s.r.l., Dipiemme Petroli s.r.l., Tor Petroli s.r.l., Autotony s.r.l. ed altri 8 compendi aziendali oltre a denaro contante, veicoli, camion, autocisterne, immobili, beni di pertinenza dei singoli indagati, fino alla concorrenza di un ammontare complessivo di circa 50 milioni di euro.

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