TOMMASO LANDOLFI: IL VIZIO DEL GIOCO, VIRTU’ DELLA PAROLA

A 40 anni dalla morte dello scrittore di Pico Farnese, Adelphi ripubblica “Del meno”: raccolta di racconti ed elzeviri

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di PAOLO ARRIVO

Che cosa accomuna lo scrittore al giocatore? Certamente il coraggio dell’azzardo come modello di vita: rischiare per non morire, scrivere per raccontarsi e per descrivere. Per scandagliare l’universo interiore facendone esperienza di condivisione. Due impulsi irresistibili dalle ricadute imprevedibili. Un intellettuale che ha abitato sia la parola che il gioco è stato Tommaso Landolfi (1908-1979), autore dimenticato, tornato in libreria grazie alla nuova edizione di “Del meno” (pp. 333, euro 15), ripubblicato da Adelphi. Un’opera del 1978, che raccoglie elzeviri. O meglio racconti incentrati sulla parola. Che per lo scrittore poeta glottoteta, nato a Pico nel Lazio, e morto a Ronciglione, rappresentava una vera ossessione. La parola può essere più perniciosa del gioco – era un grande giocatore d’azzardo, questo scrittore. Oppure può farsi virtuosa per mezzo proprio del “gioco”, attraverso un uso sapiente, pittorico. Non meno preziosa è la parola semplice che rincuora. Spesso sincera; altre volte, strumento del baro, della non comunicazione. Magari a fin di bene. La riflessione viene suggerita da uno degli scrittori più importanti del secolo scorso, autore tra l’altro del romanzo “Racconto d’autunno”, poco conosciuto e poco apprezzato per la ricercatezza dello stile unico. Un uomo che insegna il coraggio e l’amore per la scrittura. La coerenza e la lealtà di chi non conosce la censura.

 

Del meno

«Già: come si può guadagnarsi la vita inventando elzeviri?» Si chiede Landolfi in “Des mois”. D’altronde, per lui che dopo “Un amore del nostro tempo” (1965) aveva abdicato alla «follia» di raccontare storie, non c’era altra scelta: questione di sopravvivenza. Ma il punto è un altro: quelli che Landolfi chiama «innocenti raccontini» nulla hanno a che vedere con gli altrui elzeviri. Sono infatti aguzzi e vertiginosi apologhi, aneddoti, memorie, dialoghi morali, visioni apocalittiche e tenebrosi incubi – come quello, indimenticabile, dello scrittore che offre la sua vita per salvare il figlio morente ma poi, atterrito al pensiero di lasciare incompiuta un’opera ormai matura, cede alla «più inaudita ignominia» e lo lascia morire. Elzeviri eccentrici, insomma: dove, catafratto di una lingua estranea, lucente e inscalfibile, ritroviamo tutto Landolfi: le complicate «macchine di parvenze» architettate dagli uomini; il destino che ci vessa in modo «elusivo, schernevole»; i gravosi eppure ineluttabili doveri nei confronti delle persone che «una mala sorte ha gettate in tua funesta balia»; la «vanità d’ogni possibile agitazione» che ci rivela allorché abbiamo sperimentato «il tristo sapore della … felicità raggiunta»; il diritto di por fine col suicidio a un «meschino calvario». Né poteva essere diversamente; gli altri scrittori «si acconciano di ciò che è» – sono cioè acquiescenti alla «immaginaria realtà generalmente accettata. Non il radicale, disincantato, temerario Landolfi».

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